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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Formaggi, Igp e Dop sotto accusa. Slow Food: "Regole vanno cambiate"

Oltre 200 disciplinari di produzione nel mirino dell’associazione, tra obblighi di pastorizzazione e maglie larghe sulla lavorazione

Regole non abbastanza rigorose per preservare qualità e varietà dei formaggi europei. È quanto mette in evidenza Slow Food con riferimento ai disciplinari di produzione dei 236 marchi Dop e Igp del settore caseario, ovvero la “carta di identità del formaggio”, scritta per tutelarne la tipicità ma che, secondo l’associazione, finisce per rendere “più facile interpretare il processo assecondando le esigenze di mercato”. Le regole troppo morbide sulla produzione di formaggi di qualità sono raccolte in uno studio che analizza provenienza, processi di lavorazione e utilizzo dei fermenti.

Latte crudo e pastorizzazione

“I risultati emersi non sono così positivi” sottolinea Slow Food che giudica i disciplinari “disomogenei sugli elementi essenziali come la tipologia di latte e le razze animali”. Per esempio, “solo il 39% dei disciplinari obbligano a usare latte crudo mentre il 44% non indica alcun tipo di trattamento”, mentre il 15% “impongono la pastorizzazione o termizzazione”, pratiche che, sostiene Slow Food, “annullano l’attività microbica del latte, precludendo la possibilità di caratterizzare i formaggi con i sapori dei rispettivi territori”. 

Altro punto critico riguarda le indicazioni rispetto alle razze animali dalle quali proviene il latte: “il 46% dei disciplinari non impone informazioni precise, mentre per noi di Slow Food la razza (locale) rappresenta un elemento fondamentale nel caratterizzare un formaggio e nel tutelare un territorio”. 

Fermenti e biodiversità

Presentando lo studio al festival del formaggio “Cheese 2019 - Naturale è possibile”, Slow Food mette l’accento anche sul tema dell’incontro: “l’utilizzo di fermenti naturali o selezionati”. “Solo il 12% delle denominazioni prevede siero o latte innesto prodotto in azienda”, permettendo quindi di “aggiungere naturalmente una flora batterica autoctona al formaggio”. “Il 53% delle produzioni ammette invece fermenti selezionati”, contro i quali l’associazione Slow Food si batte da anni. Si tratta, accusano gli attivisti, di “fermenti facili da usare, che garantiscono risultati soddisfacenti, compromettendo così però il legame con territorio e biodiversità”. Un processo di lavorazione dal quale “si ottengono formaggi banali e uguali a ogni latitudine”. “Il restante 32% delle denominazioni tace sull’argomento - si sottolinea - aprendo così la strada ai fermenti proposti dalle multinazionali”.

Salvaguardare la qualità

“Abbiamo letto tutti i disciplinari con una lente ‘slow’ valutando tutti quegli aspetti che stanno a monte della mera valutazione qualitativa organolettica”, spiega Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. “I risultati della nostra analisi sono piuttosto sconfortanti”, dice Sardo che poi precisa: “Il sistema europeo delle denominazioni, benché non privo di smagliature, è comunque un patrimonio comune, finora ineguagliato”. “Ma - prosegue Sardo - deve rappresentare un sistema coerente, che persegue rigorosamente e in modo inattaccabile non solo la tutela dei suoi marchi, ma anche la salvaguardia della qualità delle sue produzioni”. 

Slow Food propone dunque alle istituzioni europee di “riprendere in mano la normativa che regola le denominazioni per rendere il regolamento più rigoroso su aspetti fondamentali per garantire un’autentica qualità e identità alle produzioni tradizionali”. “Chi si occupa di approvare in via definitiva le denominazioni - conclude Slow Food - non dovrebbe quindi limitarsi a controlli formali ma ad analisi più restrittive e parametri più esigenti”. 

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