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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Sulle isole di plastica negli oceani si stanno sviluppando forme di vita

Un nuovo studio conferma la colonizzazione da parte di microrganismi costieri, che sono un rischio perché potrebbero distruggere habitat marini

A causa dell'inquinamento ambientale nei mari del paienta si stanno formando delle vere e proprie isole di plastica, e a quanto pare adesso cominciano anche ad essere abitate. Si chiamano “comunità neopelagiche”: in sostanza, sono colonie di microrganismi che si sono sviluppati sulla plastica dispersa negli oceani. Queste comunità stanno fiorendo specialmente nel cosiddetto Great Pacific garbage patch (in italiano “grande chiazza di immondizia del Pacifico”), un enorme agglomerato di rifiuti, principalmente plastici, che galleggia appunto nell’Oceano Pacifico. Mentre la plastica negli oceani aumenta, aumenta la probabilità che queste comunità si diffondano: ma questa non è per niente una buona notizia.

Zattere di plastica

Il giornale scientifico Nature Communications ha pubblicato uno studio in cui rivela che specie animali marine costiere si stanno sviluppando su questi ammassi di rifiuti galleggianti in pieno oceano, dove normalmente non si troverebbero. Gli studiosi fanno riferimento ad un fenomeno noto da tempo, chiamato rafting (“canottaggio”), per cui alcune specie costiere attraversano tratti di oceano “a bordo” di formazioni di rifiuti, sfruttandole di fatto come zattere per spostarsi.

L’esempio più grande di rafting mai registrato risale al 2011, quando lo tsunami seguito al terremoto nel Giappone orientale ha fatto spostare enormi quantità di rifiuti dalle coste nipponiche a quelle nordamericane e hawaiane, coprendo una distanza di oltre 6mila chilometri. Tra questa immondizia sono stati trovati molti esemplari di diverse specie costiere giapponesi, che erano sopravvissute alla traversata dell’Atlantico settentrionale si erano addirittura riprodotte.

Ma quello che gli studiosi non si aspettavano, a quanto pare, è che queste specie costiere potessero colonizzare l’oceano aperto, rimandandovi a lungo termine anziché solo transitarci. A cambiare tutto è stata la globalizzazione, responsabile della produzione di quantità enormi di rifiuti che vengono immesse negli oceani, “riempiendoli” con formazioni solide prima inesistenti. “Con la globalizzazione durante l’Antropocene (l’era geologica in cui l’uomo influenza l’ambiente, ndr), le barriere biogeografiche imposte dagli oceani e dai continenti stanno diventando obsolete velocemente – socialmente, economicamente, e ora ecologicamente. L’aumento globale di inquinamento da plastica è un esempio inaspettato di questo effetto, dove zattere di plastica creano un’opportunità più permanente per le specie costiere di transitare attraverso i bacini oceanici e un habitat durevole di lungo termine nell’oceano aperto”, si legge nello studio.

Oltre le barriere

Una scoperta del genere mette in discussione la comprensione odierna degli ecosistemi marini e della biogeografia degli oceani, con il potenziale di innescare “un cambio di paradigma” nell’approccio della comunità scientifica. L’oceano aperto è stato a lungo considerato una barriera per la diffusione delle specie costiere, ma “questa situazione non sembra più tenere, dato che ora esiste un habitat adatto nell’oceano aperto e gli organismi costieri possono sia sopravvivere in mare per anni che riprodursi, il che porta a comunità costiere auto-sufficienti in alto mare”. 

Inoltre, sottolineano gli scienziati, la presenza permanente di organismi costieri nel mezzo dell’oceano apre la possibilità ad una loro diffusione molto maggiore: “Piuttosto che zattere di plastica come un vettore effimero di specie costiere da un punto di una costa ad un altro attraverso i bacini d’acqua, le specie costiere residenti in alto mare potrebbero fungere da fonte stabile di propaguli sia verso nuovi cumuli di rifiuti che si aggirano per le correnti sia verso le coste”.

Trappole ecologiche

Anche se questa scoperta potrebbe sembrare l’ennesima storia di come la natura trionfa sugli aspetti più negativi delle attività umane, la realtà è diversa. Come ha sottolineato Juan José Alava, esperto in ecotossicologia e conservazione marina all’Università della British Columbia citato dal Guardian, le comunità neopelagiche sono “sostanzialmente una trappola ecologica”. Queste permettono infatti l’arrivo di specie non-autoctone in habitat delicati dove potrebbero diventare invasive o addirittura distruttive.

L’aumento della densità della plastica negli oceani, che gli scienziati stimano raggiungerà 600 milioni di tonnellate entro il 2040, porterà alla creazione di strutture galleggianti sempre più permanenti (esistono già almeno una mezza dozzina di queste “isole di plastica”). Se queste si ricopriranno di piccoli organismi come quelli osservati nel Pacifico, attrarranno creature più grandi ai gradini superiori della catena alimentare – pesci, tartarughe, cetacei. Ma per loro, entrare in questi vortici di immondizia comporta un rischio altissimo di ingerire e rimanere intrappolati nei rifiuti plastici: “Ad esempio, spesso i cuccioli di balena sono molto curiosi, ma quella curiosità potrebbe portarli a rimanere impigliati e morire”, ha dichiarato Alava.

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