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Martedì, 19 Marzo 2024
Ambiente&Clima

"Solo il tre per cento degli ecosistemi mondiali è ancora intatto"

Secondo uno studio bisognerebbe ripartire da questi paradisi incontaminati, che si trovano per lo più in territori gestiti da indigeni, per ripristinare flora e fauna originarie di ogni area

Il Pianeta sta vivendo una terribile crisi della biodiversità, con molte popolazioni di fauna selvatica quasi al capolinea, principalmente a causa della distruzione degli habitat per l'agricoltura e l'edilizia. Addirittura, alcuni studiosi pensano che stia iniziando una sesta estinzione di massa della vita sulla Terra, con gravi conseguenze per il cibo, l'acqua e l'aria pulita da cui dipende l'umanità. A causa di tutto questo i frammenti di natura selvaggia non danneggiati dalle attività umane sono veramente pochi e preziosi. Lo suggerisce un nuovo studio che ha mostrato che solamente il 3 per cento degli ecosistemi è rimasto intatto, con fauna originaria e habitat indisturbato. Questi paradisi incontaminati si trovano principalmente all’interno delle foreste tropicali dell’Amazzonia e del Congo, nei boschi e nella tundra della Siberia orientale e del Canada settentrionale, e nel deserto del Sahara.

Lo studio

Nonostante precedenti analisi basate su immagini satellitari avevano stimato che il 20-40 per cento della superficie terrestre è poco influenzata dall'uomo, gli scienziati dietro il nuovo studio sostengono che le foreste, la savana e la tundra possono apparire intatte dall'alto ma poi, nel territorio, mancano specie vitali. La nuova ricerca ha combinato mappe dei danni umani all'habitat con altre mappe che mostrano dove gli animali sono scomparsi dalle loro zone originare o sono troppo pochi per mantenere un ecosistema sano. La maggior parte dei dati utilizzati riguardavano i mammiferi, ma sono stati inclusi anche alcuni uccelli, pesci, piante, rettili e anfibi. Dopo aver analizzato tutte le aree del Pianeta, tranne l’Antartide, gli scienziati hanno potuto constatare che le zone intoccate identificate si trovano in territori gestiti da comunità indigene.

Le aree danneggiate

I territori danneggiati hanno patito l’invasione di specie "aliene", non originarie del territorio. Questo è quanto è accaduto in Australia, dove sono stati introdotti animali non autoctoni, come gatti, volpie conigli, il cui inserimento ha avuto un impatto significativo sulla fauna originaria australiana. Per questo lo studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Forest and Global Change, non ha trovato ecosistemi intatti nell’Isola. Ma secondo i ricercatori la reintroduzione anche di un piccolo numero di specie autoctone nelle aree danneggiate, potrebbe ripristinare fino al 20 per cento dell’integrità nei territori. "Gran parte di ciò che consideriamo un habitat intatto, in realtà manca di fauna che è sparita o a causa dalle persone, o a causa di altre specie o per malattie invasive", ha detto l’inglese Andrew Plumptre, autore principale dello studio. Come spiega il Guardian al momento ci troviamo nel decennio Onu per il Ripristino dell’Ecosistema che vede l’impegno di più di 50 Paesi, ma secondo il Plumptre ci si sta “concentrando solo sugli habitat degradati", quando secondo lui bisognerebbe pensare anche "al ripristino delle specie, in modo da poter provare a ripartire dalle aree in cui ci sono ecosistemi intatti".

Confronti e critiche

Alcuni studiosi hanno mosso critiche verso questa nuova ricerca. Secondo loro non solo l’analisi condotta sottovaluta le aree intatte, ma il problema è anche nelle mappe utilizzate, che "non tengono conto degli impatti della crisi climatica che sta cambiando le varietà delle specie". Il professore tedesco Pierre Ibisch dell'Università di Eberswalde, che non ha fatto parte dello studio, ha affermato che scoprire che solo il 3 per cento della terra era intatto è stato "prevedibilmente devastante", ma ha aggiunto che secondo lui “la reintroduzione di alcune specie in certe aree non consentirà una svolta". Inoltre, ha criticato il fatto che la nuova analisi “non ha tenuto conto della crisi climatica”. Anche il professore australiano James Watson dell'Università del Queensland ha sollevato dubbi sul nuovo studio, che secondo lui “sottovaluta molti sforzi degli scienziati dell’ecosistema, utilizzando mappe relativamente rozze”.

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