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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Pizza, carbonara e parmigiano. Tutti i falsi miti della cucina italiana

Intervistato dal Financial Times il professor Alberto Grandi attacca le leggende dietro alcuni alimenti e ricette considerate dei classici. E molte sarebbero invenzioni "americane"

Scandalo e orrore! Qualcuno osa offendere la cucina italiana. Ancor più grave se a farlo è proprio un italiano: Alberto Grandi. Non uno qualunque, come si trattasse delle migliaia di allenatori da bar sport che criticano formazioni e moduli del Ct Roberto Mancini, ma un docente del dipartimento di Economia dell'Università di Parma. L'accademico già dal 2018, tra un libro e un podcast, denuncia tutti i falsi miti della cucina italiana, un costrutto inesistente così come la stiamo tramandando. A fare scalpore stavolta è il fatto che la denuncia appaia sul Financial Times, dove per la prima volta il professore ha parlato con la stampa estera sfatando alcune leggende. Molti stanno interpretando le affermazioni di Grandi con spirito nazionalista, come un attacco "americano" ai pilastri della nostra alimentazione, ma ad un'attenta analisi le affermazioni dell'esperto suonano tutt'altro che ridicole e si intrecciano in maniera profonda con alcuni pilastri della nostra storia, dalle immigrazioni di massa alla guerra.

Invenzioni d'identità

Il docente universitario insegna a Parma, in quella che oggi viene considerata la capitale dell'enogastronomia italiana. E già qui un dibattito potrebbe nascere, visto che il cibo dello Stivale è sempre stato tutt'altro che un concetto unitario, difficile da legare al patriottismo. Scendendo dalle Alpi e percorrendo gli Appennini, fino all'estremità Sud dell'isola di Lampedusa, è infinita la serie di alimenti, tradizioni, ricette, invenzioni, che caratterizza territori tanto diversi. Una sintesi tricolore sarebbe impossibile, eppure è quello che si è provato a fare in termini commerciali e di comunicazione per vendere meglio i prodotti nostrani. Nell'intervista al Financial Times Grandi Grandi prende di mira proprio quelli che sarebbero considerati alcuni pilastri dell'italianità a tavola: parmigiano, carbonara, tiramisù e pizza.

Nel 2018 il docente ha scritto "Denominazione di origine inventata", poi nel 2021 con l'amico Daniele Soffiati ha realizzato un podcast "Doi" (acronimo del titolo del libro), che vanta oltre un milione di download in tre anni. È in questo contesto che Grandi ha iniziato a sfatare alcuni di quelli che oggi vengono considerati dei "classici" italiani, in base alla letteratura esistente e ad una lettura marxista di determinati fenomeni industriali, che hanno fatto la loro fortuna agganciandosi al bisogno di costruzione di identità di cui gli italiani aveva bisogno dopo il fallimento fascista e i disastri della seconda guerra mondiale. "È una questione di identità", ha affermato Grandi alla giornalista autrice dell'articolo Marianna Giusti, aggiungendo: "Quando una comunità si trova privata del suo senso di identità, a causa di un qualsiasi shock storico o di una frattura con il suo passato, inventa tradizioni che fungono da miti fondanti".

From Parma to Wisconsin

Tra questi miti c'è il parmigiano, la cui versione odierna secondo Grandi è il frutto di manipolazione industriale, mentre la ricetta originale sarebbe custodita all'altro capo dell'Atlantico. "La sua storia è straordinariamente antica, ha circa mille anni, ma prima degli anni '60 le forme di parmigiano pesavano solo circa 10 chili ed erano racchiuse in una spessa crosta nera", ha sostenuto il docente, precisando che "la sua consistenza era più grassa e morbida di quanto non lo sia oggi. La sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin". Come ci sarebbe finito? Ovviamente grazie a degli italiani, probabilmente originari della regione del Po a nord di Parma, immigrati oltreoceano all'inizio del ventesimo secolo. Lì la ricetta originale non si è mai "evoluta", protetta dalle trasformazioni ed esigenze commerciali che hanno determinato la versione attuale, cioè un formaggio a pasta dura e dalla crosta chiara prodotto in forme giganti di circa 40 chili. Per assaggiare l'originale dovremmo quindi abbandonare Parma e recarci negli Stati Uniti.

Dolci ignorati

Altra storia recente sarebbe quella del tiramisù, un prodotto ignorato fino agli anni '80, dato che il mascarpone in passato difficilmente era disponibile fuori Milano. A spingere la sua diffusione sarebbero stati i Pavesini, biscotti tutt'altro che artigianali rispetto ai savoiardi presenti nella ricetta originale, se ancora potremo usare questo termine. Storia paradossale poi quella del panettone. Il dolce diventato protagonista di classifiche e competizioni da Nord a Sud (!) non aveva nulla a che fare col Natale. Si trattava di una focaccia dura, sottile e ripiena di uvetta, trasformata abilmente dall'industria nella sua versione soffice. "Il panettone come lo conosciamo oggi è un'invenzione industriale", ha dichiarato Grandi, proseguendo: "Negli anni '20 Angelo Motta introdusse una nuova ricetta di impasto e diede inizio alla 'tradizione' del panettone a forma di cupola. Poi, negli anni '70, di fronte alla crescente concorrenza dei supermercati, i panifici indipendenti iniziarono a produrre loro stessi panettoni a forma di cupola". Il processo è stato quindi inverso: da prodotto industriale ad eccellenza artigianale. 

L'eresia della carbonara

Scandalose poi per tutti i romani le affermazioni relative alla carbonara, la pasta dogmatica per eccellenza a partire dai suoi ingredienti: pasta, rosso d'uovo, pecorino e guanciale. In questi anni questo "classico" della cucina della capitale ha provocato accesi dibattiti con divieti assoluti relativi all'utilizzo di panna e di pancetta (anziché guanciale) e alla cottura dell'uovo. Secondo Grandi prima della seconda guerra mondiale nessun italiano aveva sentito parlare della carbonara. Come sostenuto anche dall'esperto di "ricette storiche" Luca Cesari, la carbonara è “un piatto americano nato in Italia”. In base alle ricostruzioni riportate dal professore di economia, si tratta di un piatto inventato da un cuoco italiano, Renato Gualandi, che lo avrebbe preparato per la prima volta nel 1944 a Riccione, durante una cena per l’esercito americano, sfruttando il loro "favoloso bacon" e della panna di qualità. Questa quindi la ricetta poi importata negli Stati Uniti e stampata a Chicago nel 1952. Anche le ricette italiane dell'epoca includerebbero altri ingredienti, come la groviera o "prosciutto e funghi sottilmente affettati", come risulterebbe dal menù di un ristorante romano, I tre scalini. Il guanciale sarebbe un'apparizione degli anni ’90.

Chi non amava la pizza

Infine l'esempio clou della pizza. I dischi di pasta condita erano diffusi da secoli in varie forme (pita, piada, pitta e la stessa pizza) che tuttora possiamo ritrovare viaggiando da una sponda all'altra del Mediterraneo. Secondo Grandi la prima pizzeria (intesa come ristorante dedicato solo alla pizza) è stata aperta non in Italia, ma a New York nel 1911. Quando nel 1943 i soldati italo-americani vennero inviati in Sicilia avrebbero scritto lettere con espressioni incredule, stupiti che in Italia non ci fossero pizzerie. La qual cosa non stupisce. A questo proposito anche la sottoscritta ha da aggiungere un tassello. La giornalista partenopea Matilde Serao spiegava alla fine dell'800 come la pizza napoletana non avesse attecchito altrove. Anni luce distante dalle sue versioni gourmet odierne (spesso troppo care e poco riuscite), la democratica pizza napoletana si era diffusa per sfamare in tempi rapidi un popolo laborioso ma privo di grandi risorse economiche. "Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano", spiega l'autrice, specificando che queste pizze venivano vendute da un garzone direttamente in strada, "sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche". Poco attraente come descrizione, ma tant'è. Come mai non riuscì a valicare i confini campani?

"La colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio", scrive Serao nel suo Ventre di Napoli nel capitolo "Quello che mangiano". "Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana", scriveva la prima direttrice donna di un quotidiano italiano. Mentre sotto il Vesuvio i pizzaioli partenopei adoperano ormai parmigiano e olio extra-vergine d'oliva (al posto di pecorino e olio di girasole), loro stessi complici di mitologie italiche, i romani vantano "invenzioni" come la pinsa o il trapizzino. Anche queste ricette un giorno diventeranno leggende che, senza il giusto spirito critico, rischiano di essere tramandate per fondare e colmare chissà quale bisogno di "identità".

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