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Venerdì, 29 Marzo 2024
Le Storie

Braccia sfruttate dall’agricoltura: il caporalato mostra il lato oscuro del cibo made in Italy

Lavoro senza regole, condizioni disumane e violenze. Agricoltori perbene si ribellano alla nuova schiavitù, ma manca un efficace sistema di controlli

La recente inchiesta della squadra mobile di Latina, che ha portato all’arresto di sei persone per aver messo su un traffico almeno 400 stranieri sfruttati, ha riportato l’attenzione pubblica sul fenomeno del caporalato. Secondo l’ultimo Rapporto sulle agromafie pubblicato dall'Osservatorio Placido Rizzotto Flai Cgil, il business della schiavitù moderna vale 4,8 miliardi di euro l’anno, ma si deve tener conto anche di 1,8 miliardi di evasione contributiva. Oltre al volume d’affari sottratto a chi lavora onestamente, pesano i numeri degli invisibili, gli sfruttati dai “caporali”, che sarebbero 430mila: di questi, oltre 132mila vivono in condizioni di “grave vulnerabilità sociale” e “forte sofferenza occupazionale”. 

17 ore di lavoro al giorno

Come riportato da Urmila Bhoola, funzionaria Onu che si è recata in Italia per vedere da vicino il fenomeno, le vittime di caporalato parlano di sconcertanti orari di lavoro, “talvolta fino a 17 ore al giorno”, retribuite con salari che “possono essere pari ad appena 3 euro all'ora o 50 centesimi a cassetta di arance raccolte in Calabria”. Abusi, violenze e minacce sono frequenti, come ha spiegato la Bhoola nel corso di una conferenza stampa lo scorso ottobre: “Abbiamo incontrato un lavoratore agricolo ventenne originario dell'India che non era stato pagato per 3 mesi e che è stato gravemente picchiato a ogni richiesta di pagamento”. 

Il potere dei caporali

L’inviata speciale delle Nazioni Unite fa anche riferimento alle violenze sessuali, alle quali non possono sottrarsi le migranti irregolari già sfruttate nei campi, “forzate a rispettare tali richieste al fine di mantenere il proprio posto di lavoro ed evitare la segnalazione alle autorità giudiziarie”. 

“Gli intermediari”, sottolinea la funzionaria Onu con riferimento ai caporali, “ricevono un potere e un controllo notevoli sui lavoratori che reclutano, poiché forniscono anche servizi come il trasporto ai campi, il cibo e l'acqua per i quali solitamente trattengono circa 5 euro al giorno”.

Le carenze legislative

A livello comunitario manca una definizione vera e propria del caporalato, che avendo a che fare con comportamenti penalmente rilevanti viene contrastato dalle leggi nazionali. L’Italia ha approvato una legge nel 2016 che colpisce i datori di lavoro che si avvalgano di caporali o che sfruttino direttamente la manodopera senza tutele. La pena prevista per entrambe le ipotesi di reato è la reclusione da uno a sei anni e una multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore i cui diritti vengono calpestati. Nel caso in cui il reclutamento avvenga con violenza o minaccia, il reato viene punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore.

Si parla del fenomeno da alcuni anni, ma sono ancora tanti i punti oscuri o le false informazioni che girano su questo tema. Una di queste è che il caporalato sia nato con l’arrivo dei migranti. “Assolutamente falso”, risponde Ivana Galli, segretaria nazionale della Flai-Cgil, “il caporalato esiste da sempre nel nostro Paese”. Ma c’è da dire che “negli ultimi anni è diventato un fenomeno organizzato, legato anche alla criminalità”. “Questi soggetti”, spiega la Galli, “sono diventati dei manager dello sfruttamento”. La rappresentante dei lavoratori dell’agroindustria sottolinea che la filiera alimentare è remunerativa anche quando si rispettano tutte le regole, ma la pretesa di alcuni operatori di guadagnare il massimo riducendo al minimo i costi di produzione porta allo sfruttamento dei lavoratori del comparto agricolo. 

Il tasso di irregolarità nei rapporti di lavoro in agricoltura è pari al 39%, e si stima che siano 30mila le aziende che ricorrono all'intermediazione dei caporali, circa il 25% del totale degli operatori sul territorio nazionale che impiegano manodopera dipendente. Un problema da affrontare è quello di aver abituato i consumatori a prezzi così bassi da non essere sostenibili per la filiera alimentare che gioca pulito. 

La legge Ue sulle pratiche sleali

Gli agricoltori onesti avranno dunque beneficio dalle nuove regole europee che sanzionano le pratiche sleali adoperate dalla grande distribuzione per mantenere i prezzi bassi. Si tratta di comportamenti quali l’annullamento last minute delle merci ordinate o il pagamento ritardato di prodotti deperibili come frutta e verdura. Si sanziona anche il comportamento delle catene di supermercati che negano la forma scritta del contratto di fornitura con il produttore. Tutte pratiche che svalutano, di fatto, il mestiere del coltivatore, rendendo la filiera agricola più sensibile all’infiltrazione dei caporali.

Il giusto prezzo

Le tariffe basse fanno male anche alle campagne e alla salute in quanto “a prezzi insostenibili corrisponde un’insostenibilità ambientale e sociale”, denunciano i promotori della campagna “Il giusto prezzo”. Per un chilo di pomodori da passata e uno di grano per la pasta, due componenti fondamentali della cucina nostrana, il prezzo pagato all'agricoltura convenzionale, rispettivamente di 8 e 20 centesimi di euro, risulta inadeguato per la cura della terra e per ripagare il lavoro della manodopera.

Fabio Brescacìn, presidente di EcorNaturaSì, che ha lanciato la campagna assieme a Legambiente, spiega che l'agricoltura a basso costo, “incentiva scorciatoie insostenibili dal punto di vista ambientale e sociale, dall'uso dei prodotti chimici di sintesi al capolarato, dramma dell’agricoltura”. Insomma “sappiamo a che prezzo compriamo ma non sappiamo quale prezzo è stato pagato” così “consumatori e distributori insieme possono fare molto per invertire questo trend negativo, partendo dal riconoscimento e dalla consapevolezza del giusto prezzo”.

Il lavoro dei migranti

Secondo il Crea, lavoratori non italiani in agricoltura - tra regolari e irregolari - sarebbero circa 405 mila. Se si pensa che gli addetti del comparto agricolo sono circa un milione in tutta Italia, si capisce quanto sia fondamentale per la filiera alimentare il lavoro degli immigrati. Di questi il 16,5% ha un rapporto di lavoro informale e il 38,7% una retribuzione non sindacale. Chi di loro è arrivato in Italia via mare rischiando la vita, difficilmente avrebbe potuto immaginare di restare intrappolato nelle terre a raccogliere pomodori e arance.

Per far fronte a questi problemi e fornire una via d’uscita, Don Massimo Mapelli ha messo su la cooperativa agricola sociale “Madre Terra”. L’azienda sorge tra le nebbie della campagna di Zinasco Vecchio in provincia di Pavia e permette a adulti e minori di iniziare un nuovo percorso imparando la lingua italiana e il mestiere dell’agricoltore. “Qui i nostri ragazzi sono pagati il giusto, senza essere sfruttati e senza il caporalato”, afferma Don Massimo. “Con loro ci occupiamo anche di un bene confiscato alla ‘ndrangheta perché possa anch’esso essere rimesso a disposizione per chi ha più bisogno”, spiega il prete-agricoltore che combatte le mafie su più fronti. 

Strumenti legislativi come le norme anti-caporalato e politiche comunitarie di contrasto all’assurda corsa al ribasso dei prodotti agricoli possono fare molto. I sistemi di controllo del cibo made in Italy sembrano però fortemente carenti se è vero quanto affermato dalla funzionaria Onu Urmila Bhoola: “gli Ispettorati del lavoro presentano una notevole mancanza di risorse sufficienti”. “In provincia di Foggia”, prosegue la Bhoola, “sono stati assegnati al settore dell'agricoltura sei ispettori del lavoro, responsabili dell'ispezione di un totale di 9mila aziende agricole”.

Il report della funzionaria dell’Onu si conclude con le esortazioni alle autorità italiane, tra le quali si evidenzia la necessità di “rafforzare gli Ispettorati del lavoro assegnando risorse supplementari al fine di garantire che le ispezioni siano efficaci ed esenti da corruzione, oltre a garantire la sicurezza degli ispettori”. “Le ispezioni del lavoro”, conclude l’inviata delle Nazioni Unite, “potrebbero inoltre beneficiare della cooperazione con i mediatori culturali al fine di ottenere la fiducia dei lavoratori migranti”. 

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