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Domenica, 28 Aprile 2024
Tradizione & Innovazione

Perché a Napoli temono lo "scippo" della pizza

Dopo il riconoscimento europeo gli operatori sono preoccupati per controlli troppo minuziosi. La costituzione un consorzio potrebbe essere una soluzione, ma potrebbero essere creati più rapidamente in altre città

Farsi "scippare" la pizza napoletana proprio adesso che ha ottenuto il riconoscimento a livello europeo. È questo uno dei timori che aleggia nella sala dell'Hotel Oriente di Napoli, dove le principali organizzazioni di pizzaioli della città si sono date appuntamento insieme ad esperti e rappresentanti delle istituzioni per fare un punto. Un misto di orgoglio e paure, di voglia di unirsi e di storici conflitti ha caratterizzato la prima riunione successiva all'attribuzione da parte di Bruxelles della tutela "rafforzata" al prodotto più noto della tradizione culinaria partenopea. Come Agrifood Today aveva anticipato, il regolamento potrebbe rivelarsi un boomerang proprio per i pizzaioli napoletani. Vediamo il perché.

Certificazioni rapide

Da un lato c'è chi alza una bandiera vittoriosa, reputandolo un riconoscimento importante, anche sul piano economico. Il disciplinare mette fuori gioco i colossi dell'agroalimentare, che a questo punto non possono più indicare come "pizza napoletana" prodotti congelati o surgelati. E questo è un sicuro vantaggio. "Bisogna partire con un certo numero di pizze certificate. Ci sono pizzaiuoli che non hanno bisogno di questa certificazione per quanto sono noti, ma per altri è un certificato di garanzia", ha affermato Vincenzo Peretti, docente all'Università Federico II e vicepresidente dell’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno, invitando gli operatori ad iscriversi rapidamente agli enti accreditati.

Un brand diffuso

Su posizioni analoghe si colloca Raffaele Cercola, professore di marketing alla Federico II e tra gli ideatori del celebre "Napoli Pizza Fest", che vede la tutela come il trampolino di lancio per la creazione di un vero e proprio brand, che non farebbe capo ad una singola azienda ma ad una molteplicità di produttori. Pur trattandosi di una forma di tutela meno nota rispetto alle diciture Dop, Doc e Igp (a carattere territoriale), il disciplinare della Stg tutela al tempo stesso diversi elementi: prodotto, processo, logo e controllo, a prescindere dal territorio di produzione. Che sia fatta a Milano, Parigi o Budapest, la certificazione è attribuita in base al rispetto degli elementi caratteristici della tradizione definiti nel disciplinare.

"È un'opportunità clamorosa per differenziare un prodotto unico" sostiene Cercola, aggiungendo che "chi non la sfrutta è un imbecille". Il docente ricorda come il testo descrive le sei fasi di processo di tre prodotti: marinara, margherita e "margherita extra, sottolineando come in Italia le Stg siano appena quattro. Le altre tre sono: vincisgrassi, pasta alla carbonara e la mozzarella. Senza dubbio è la pizza il prodotto di punta e con maggiori opportunità di espansione economica. Ma cosa temono allora le pizzerie partenopee?

Polizia della pizza ?

Per alcuni il nodo principale riguarda i controlli, che al momento possono essere effettuati da tre enti di certificazione accreditati. "Siamo sicuri che i controlli non avverranno all'improvviso e mi verificano il peso dei panetti per multarmi se non corrisponde al disciplinare?", ha chiesto polemicamente Antonio Pace, presidente e fondatore dell'Associazione Verace Pizza Napoletana. Si teme insomma una "polizia della pizza" che complicherebbe la vita agli operatori anziché valorizzare il loro lavoro. Altro timore deriva dalle tempistiche.

Il disciplinare era stato delineato una decina di anni fa, ma all'ombra del Vesuvio la pizza nel frattempo si è evoluta, aprendosi all'utilizzo di farine diverse dalla "00", ad impasti a lunga lievitazione e maggiore idratazione, a forni a gas e persino elettrici, dando vita a quella che viene definita "pizza napoletana contemporanea". Questa tipologia vede ad esempio tra i suoi paladini Francesco Martucci della pizzeria I Masanielli, collocata dagli esperti in cima a numerose classifiche dedicate a questo piatto. Tutti questi elementi si discostano però da quelli individuati dal disciplinare e reputati indispensabili per ottenere la certificazione. Come ovviare al problema?

Sfuggire ai controlli

Secondo alcuni bisogna evitare di richiedere la certificazione, per evitare i controlli e le relative multe. Altri si sentono salvaguardati dal fatto che nei loro menù da nessuna parte viene nominata la "pizza napoletana", ma sono indicate direttamente le classiche "margherita" e "marinara". Il professor Peretti suggerisce invece, per chi si sia discostato dalla "tradizione" di inserire nel suo menù almeno una delle tre pizze protette dal disciplinare e di eseguirla secondo le regole. Questo metodo lascerebbe intatta la possibilità di realizzare nel modo che si preferisce tutte le altre tipologie di pizza, ammettendo che, seguendo alla lettera il disciplinare, "non si farebbero più di trenta pizza al giorno".

Questa soluzione non convince tutti. Radicale ad esempio l'opposizione della storica Pizzeria Brandi. "Se io non sono certificato non posso più scrivere 'pizza napoletana' sui miei menù dopo 250 anni? Devo tenere sempre qualcuno sulle spalle che mi viene a controllare come faccio la pizza? Questa è una zappa che ci siamo dati sui piedi", ha affermato un suo rappresentante. Ecco l'altro nodo. È davvero necessaria una certificazione per chi fa la pizza a Napoli?

Il consorzio che divide

Il disciplinare nasceva da due esigenze: da un lato quella di evitare gli abusi ed inganni, perpetrati sia da singole pizzerie che dall'industria, che utilizzano preparazioni e ingredienti di scarsa qualità, dall'altro quella di diffondere un metodo di preparazione e uno stile oltre i confini campani, e in qualche modo proteggere i numerosi pizzaioli, napoletani e non, che aprono le loro attività nel resto d'Italia e d'Europa. Per ottenere il massimo dal riconoscimento europeo, secondo alcuni esperti, andrebbe creato un consorzio, che parta da Napoli per trovare poi adesioni in tutta Europa. E qui il dibattito si è nuovamente infuocato. Dato che alcuni tentativi sono falliti negli anni scorsi, anche a causa di manovre poco chiare, i dubbi aleggiano sulla riuscita di questa nuova aggregazione.

Esclusioni eccellenti

Altro punto dolente riguarda la composizione del consorzio stesso. C'è chi afferma che andrebbero escluse le grandi catene e i franchising perché, visti i loro numeri, potrebbero "impadronirsi del consorzio". L'intervento cita ad esempio catene come quella dei Fratelli La Bufala o Rosso Pomodoro, ma potrebbe toccare anche Sorbillo e Da Michele, nomi storici che in questi anni hanno aperto numerose sedi, sia nello Stivale che nel resto del mondo. "Le grandi catene hanno lo stesso obiettivo delle pizzerie singole. Anche noi vogliamo evitare che i gruppi esteri si impadroniscano di questo prodotto" ha ribattuto un rappresentante di Rosso Pomodoro, precisando: "I nostri pizzaiuoli lavorano artigianalmente come nelle piccole pizzerie". Fatti fuori i colossi dell'industria in base al disciplinare, chi altri potrebbe impossessarsi della dicitura? "Il rischio è che qualcuno più furbo si faccia un consorzio per i fatti suoi, scippando a Napoli la pizza napoletana" ha evidenziato Vincenzo Peretti. I timori sono quindi rivolti alle pizzerie di altre città, come Milano o Torino, che potrebbero unirsi con maggiore rapidità, visti anche i numeri più esigui e l'assenza di conflitti pregressi. E a quel punto sarebbe davvero un paradosso.

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