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Sabato, 27 Aprile 2024
Lavoro e gastronomia

Così l'alta cucina ripensa tempi e modi per tornare ad attrarre i giovani

Orari ridotti, formazione interna e salari adeguati. A Festa a Vico ristoratori riuniti propongono di accendere i riflettori non solo sullo chef ma su tutta la brigata, inclusa la sala

Anche gli stellati piangono. Tra modelli economici disfunzionali e personale in fuga, i ristoranti di alta gamma cercano nuove strade per funzionare (meglio) e restare sulla cresta dell'onda. A parte chi è avvezzo al lamento, altri si mettono in discussione come alcuni degli chef riunitisi nei giorni scorsi a Vico Equense, il primo approdo della Penisola sorrentina arrivando da Napoli. Qui lo chef Gennaro Esposito da vent'anni riunisce uno spicchio del gotha della cucina di alta gamma, attirando semplici curiosi e pasionari della ristorazione. Partito come reunion tra amici di diverse brigate che volevano condividere del tempo insieme fuori dai rispettivi ristoranti, Festa a Vico si è evoluta: la festa di piazza si fonde oggi al supporto ai progetti sociali, l'aspetto modaiolo si sovrappone alle sperimentazioni, inglobando in tre giorni gli assaggi a prezzi accessibili e le cene d'élite da 320 euro a testa. Tutto va in beneficenza e quest'anno sono stati raccolti 250mila euro distribuiti tra cinque onlus.

La tre giorni dedicata alla gastronomia è diventata anche un'occasione per discutere e confrontarsi tra addetti ai lavori, da chi sta in cucina ai produttori, inclusi i lavoratori di sala e gli esperti della comunicazione gastronomica. Al centro del dibattito quest'anno è finita soprattutto la questione del personale, troppo spesso accusato di mancanza di disponibilità e preparazione inadeguata. Anziché demonizzare i lavoratori, gli chef-imprenditori ospiti della kermesse si sono messi in discussione e hanno lanciato una serie di proposte, già sperimentate o da lanciare nei loro ristoranti. Alcune potrebbero rivoluzionare anche il modo della clientela di mangiare e di approcciare l'alta cucina.

Educazione bergamasca

"C'è una debolezza di base sui dipendenti e un po' la colpa dobbiamo tenercela addosso. Dalla Val d'Aosta alla Sicilia i problemi sono simili. Non dobbiamo schiavizzare nessuno ma far innamorare i lavoratori del mestiere. Altrimenti la debolezza è la nostra", ha ammesso nel corso del suo intervento al cinema Aequa Francesco Cerea, uno dei fratelli che gestisce il celebre ristorante Da Vittorio, nato a Bergamo e diventato oggi un brand internazionale, da Shangai a Saint Moritz. Il primo nodo emerso è quello che riguarda la formazione, su cui Cerea si è soffermato: "Non è vero che la ristorazione è il refugium peccatorium dei ragazzi che non hanno voglia di studiare", ha commentato subito l'imprenditore, precisando: "In questo settore si possono conoscere tante belle persone, viaggiare, imparare...ai ragazzi dobbiamo dimostrare che non siamo prigionieri di questo mondo ma che amiamo starci dentro". La pandemia è stata decisiva per far mutare approccio ai Cerea: "C'era una crescita senza sapere il perché, faticando per restare aperti, allora mia sorella (Barbara, ndr) ha proposto di far convogliare i nostri dipendenti ed altri lavoratori in un'apposita scuola interna". A fronte anche di carenze riscontrate nella formazione è nata la loro Academy, che ha sede a Bergamo e presto sbarcherà anche a Milano. "L'Academy è pagata da noi ai nostri dipendenti ed è su base volontaria", ha specificato il manager, fiero delle numerose adesioni. Se questa dei Cerea resta una formazione privata aperta anche all'esterno, risulta evidente quanto sia importante investire di più nell'aggiornamento degli alberghieri, sia in termini di corpo docente che di attrezzature in cucina (via via più complesse e variegate) messe a disposizione degli studenti.

Tempi moderni (e ridotti)

Gli orari e i giorni di impiego sono l'altro punto critico del settore, che respinge molte persone alla ricerca del giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Cerea è consapevole che i tempi sono cambiati. "A volte di notte mio padre ci obbligava a pulire scampi o carciofi per stare insieme intorno a un tavolo a chiacchierare. Per lui era un momento di condivisione, ma io da ragazzo avrei preferito fuggire ed essere altrove, per questo oggi mi sembrerebbe assurdo proporre qualcosa del genere ai miei dipendenti", ha confessato il ristoratore bergamasco. Sul punto si è espresso anche Cristiano Tomei, che oltre al ristorante L'imbuto di Lucca gestisce anche un'azienda agricola. "Prima ero convinto dovessi restare sempre aperto...Mi ero ammalato pensando a quanto lavoravano gli altri e a causa dell'ossessione di quanto guadagnare, invece condividendo coi miei colleghi le varie esperienze e i problemi, non solo i successi, ho capito che si può migliorare, ad esempio imparando a gestire meglio le materie prime e il personale", ha svelato Tomei. "Mi ha salvato il mio commercialista che mi ha suggerito di restare chiuso due giorni, poi due giorni e mezzo", una formula che lo chef toscano credeva impossibile e che invece starebbe funzionando. Tomei ha sottolineato a più riprese come, oltre alla quantità, conti anche la qualità del lavoro, da godere insieme. "I ragazzi hanno sete di crescita vera e il lavoro deve tornare ad essere umano", ha chiosato lo chef formatosi come autodidatta e oggi anche Executive chef presso il ristorante dell’Hotel Bauer a Venezia. Sulla questione tempo incidono anche le abitudini dei clienti, che si presentano spesso ad orari improbabili, trattenendosi anche fino a tarda notte. "Ha senso andare da uno stellato a mangiare un menù degustazione alle dieci di sera? Forse dobbiamo educare i nostri clienti, come quelli a cui raccomandiamo di venire alle 19 per godersi il tramonto davanti al mare", ha detto Mariella Organi, manager del ristorante la Madonnina del pescatore, con alle spalle una lunghissima esperienza come responsabile di sala. "Dobbiamo cominciare ad alleggerire e a rallentare, per tornare a fare cose sostanziali che aiutino il nostro pubblico a crescere con noi", ha evidenziato Organi, che gestisce il ristorante di Senigallia col marito e chef Moreno Cedroni.

Il diritto all'imperfezione

Tra battute e amarcord, il dibattito è arrivato a toccare anche la filosofia che c'è dietro gli stellati, dove sempre di più si gonfiano parole come rigore, perfezione, servizio impeccabile. Dalle cucine di tutto il mondo emergono con frequenza storie di "dittatori" della cucina, che massacrano stagisti e dipendenti, finendo col respingerli. La conferma arriva dal foyer del cinema, mentre discuto con Carlo Spina, che ha conquistato una stella lavorando al ristorante Veritas di Napoli. "Mi arrivano a volte ragazzi terrorizzati dalle esperienze precedenti. Per me invece la brigata è al primo posto, anche perché quando non sei in cucina possono fartela pagare cara...", ha commentato ironicamente lo chef partenopeo. Quella del rigore eccessivo è una brutta abitudine che alcuni maestri della cucina applicano in primo luogo a se stessi. Salvo ricredersi. "L'errore è visto come un'impronta indelebile, io invece rivendico i miei errori con orgoglio e dico che ai ragazzi non si può inoculare nella testa la perfezione", ha sottolineato a questo proposito Tomei. "Non è tanto la tecnica, ma il sorriso, il gioco, è questo che la ristorazione deve tornare a fare. È vero che serve uno stile, un marchio, ma non va inoculato come una medicina o un vaccino, va invece tramandato", ha precisato lo chef toscano.

Sotto i riflettori

A proposito di stile, il padrone di casa Gennaro Esposito ha espresso voglia di cambiamento, di trovare formule nuove applicate alla tradizione: "Vorremmo tornare al servizio al tavolo, non spettacolarizzato, ma divertente, ma un taglio al tavolo, ad esempio, necessita qualità dei professionisti e ce ne sono pochi", ha ribadito lo chef campano. Per risolvere il problema della professionalità ha suggerito di riflettere sul valore attribuito al personale anche in termini di comunicazione. I ristoranti, ha ricordato, sono oggi dei "tavoli di lavoro complessi", con sempre più figure che contribuiscono alla creazione dei menù, come anche alla selezione dei vini e del servizio in sala: "Quando si lavora con una persona bisogna mettere sul tavolo il valore del progetto, quello del tempo libero e il discorso economico, ma il progetto è centrale per sentirsi portatrici e portatori di contenuti. Bisogna fare in modo che tutto il personale si senta parte del merito del progetto anche in termini di visibilità, anche banalmente nella foto che pubblichiamo sui social. Non possiamo pensare ci sia uno staff ombra", ha concluso Esposito. Più importanza quindi alla brigata, intesa come comunità, e meno al singolo talento trattato troppo spesso da supereroe isolato della cucina.

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